A volte ci vogliono quindici anni,
forse qualcosa in più, per cambiare punto di osservazione. Anche se, in
altezza, quei punti distano giusto cinque metri. Anche se, in fondo, vicino a
quel punto la tua macchina ci è passata tante volte.
Sembrava così alta, quella
discesa di terra, dal centro di quel giardino, tra un casotto per gli attrezzi,
i piloni di cemento armato che reggevano il filo, le piante che facevano ombra
e quel dondolo di ferro dipinto di bianco, con le tende un po’ stinte a fasce
verdine e marroncine, dove veniva naturale sedersi disdegnando le sedie del
tavolino, un po’ arrugginite.
Sembrava così alta, per un
bambino che metteva le mani dappertutto per fare «esperimenti», trafficando
sempre con vasetti di vetro in cui finivano puntualmente erbe, foglie, sassi e
qualche castagna matta caduta a terra: quei vasi restavano a decantare per
giorni, nel tentativo di scoprire o dimostrare chissà che cosa, quando ancora
studiare scienze sembrava un gioco in cui, al massimo, ci si sporcava un po’ le
mani e i vestiti, a non stare attenti.
Sembrava una piccola rampa per un
altro mondo, anche se in fondo si vedeva benissimo che lassù c’era un
distributore di benzina e, a stare attaccati al muro della casa, si vedeva la
parte superiore degli spazzoloni dell’autolavaggio. Ogni tanto da quella rampa
scendeva un dobermann, elegante nella sua imponenza, fino ad avvicinarsi alla
rete che divideva il giardino dall’universo che stava fuori.
Poi arriva il giorno in cui, con
la tua auto, arrivi giusto vicino a quella rampa, ma la vedi dalla sua parte
più alta, come fosse una terrazza: ti siedi a nemmeno dieci metri, con il
registratore in mano perché un’intervista ti ha portato fin lì, a cinque minuti
scarsi da casa tua. In fondo lo sai benissimo cosa c’è, giù da quella discesa e
oltre la rete, ma mentre ascolti e fai domande non ci pensi o non ti rendi
conto.
Poi le domande finiscono, fai per
tendere la mano per i saluti, ma quei mattoni a vista e quelle finestre esigono
la tua attenzione. Rivedi con chiarezza quella casa che è stata tua senza
essere la tua, ritrovi la spensieratezza di tanti giovedì, con gli esperimenti,
le parole crociate e i giri a Po nel pomeriggio e, per cena, il sapore e la
consistenza degli gnocchi ben preparati. Guardi di nuovo e pensi a chi ha
aperto le ali un giorno di luglio, senza poterti sorridere perché tra voi c’erano
quasi 800 chilometri;
gli occhi stanno per bagnarsi, poi vedono dall’alto, lontane, le casette delle
tartarughe, che ci sono ancora.
Forse, allora, non tutto è volato
via; anche il dondolo c’è ancora, riposa smontato nel solaio che intravedi,
dall’alto della tua rampa. Ora lo sai e benedici quell’agosto vicino in cui,
anche solo per qualche ora, hai sentito quella casa di nuovo tua. Era davvero
troppo vuota, ma tu hai rivisto lei e lei – ne sei certo – ti ha riconosciuto. Già,
perché tu sei sempre rimasto su quel camino in taverna. Tu, con i tuoi giochi
di bimbo. Tu, con Gianni.
Mi ricordo quelle mega tartarughe!!
RispondiEliminaPenso che quei giochi e chi giocava con te siano sempre con te Gabry!
Un abbraccio
Francesca