Gli addii non sono fatti per
essere felici, anche quando sono lunghi abbastanza per cercare di accontentare
tutti: dev'essere per questo che si cerca di renderli speciali, per permettere
a chi c’era di averne un ricordo bello. Ivano
Fossati da novembre sta facendo questo: gira l'Italia per l'ultima volta,
con il tour che segue il suo ultimo album Decadancing.
In questa avventura lo seguono musicisti straordinari e alle 35 tappe
inizialmente previste via via se ne sono aggiunte altre, permettendo a tanti di
essere presenti a questo "lungo addio": per fortuna la tournée è
passata anche da Modena, al teatro comunale.
Vale davvero la pena ripercorrere insieme una serata intensa, lunga oltre
due ore e mezza, in cui le emozioni e la musica si fondono e si fanno
ricordare.
Si parte nel segno di Marco Polo,
che torna a Venezia carico di anni come di esperienza: potrebbe mai somigliare
a uno di quei Viaggiatori d'Occidente,
«poco convinto di appartenere a questa o a un'altra terra»? Quel brano è del
1988, proprio come quello che dà il titolo a quel disco, Ventilazione, con un'atmosfera di cambiamento inquieto, un po'
troppo tendente al basso. È questa la premessa ideale della Decadenza, che canta un'epoca da basso
impero, in cui «le parole» e «le persone non hanno chance». E se non hanno possibilità
le parole (e, in fondo, nemmeno i sogni e il perdono), viene quasi spontaneo
dire che Quello che manca al mondo «è
un poco di silenzio», in mezzo a tante frasi dette a vanvera o solo per fare
rumore.
Eppure i sogni qualche volta si
fanno largo e lo spazio lo trovano: è lo stesso Fossati a raccontarlo,
ripescando un brano del 1996, Stella
benigna, «la storia di una ragazza irachena, troppo occidentale e istruita
per la famiglia, che si salvo da una condanna a morte perché troppo giovane,
riuscì a fuggire dal suo confino arrivando fino in Francia, dove è riuscita a
rifarsi una vita come insegnante, perché aveva studiato di nascosto francese e
inglese». Il sogno merita energia e, se in Quello
che manca al mondo ha suonato l’armonica sul finale, questa volta Ivano
(nel frattempo passato dalla chitarra al pianoforte) riprende il suo flauto
traverso e ci dà dentro di brutto, con la grinta che serve, mentre si fa
apprezzare sempre di più la poliedricità dei musicisti, con la violoncellista Martina Marchiori che passa
tranquillamente alla fisarmonica o alle tastiere e un maiuscolo Pietro Cantarelli che, oltre ad aver
curato gli arrangiamenti, si trova perfettamente a suo agio col piano, le
tastiere, la fisarmonica e la chitarra.
Un’altra canzone nuova, Settembre, tenera e piena d’affetto come
voce e pianoforte sanno essere, poi è tempo della prima, grande meraviglia: si
tratta di Lindbergh, semplicemente
magica, con la solitudine di Fossati ad accentuarne la bellezza un po’ sofferta
(«Difficile non è nuotare contro la corrente, ma salire nel cielo e non
trovarci niente»). Si unisce poi la chitarra acustica di Riccardo Galardini per un altro classico imperdibile, Mio fratello che guardi il mondo,
tutto da gustare.
La formazione si completa di
nuovo, il repertorio fa qualche passo avanti nel tempo e arriva a L’amore fa, poi la ritmica si fa più
evidente con Ho sognato una strada, con
il basso incisivo di Max Gelsi e le
chitarre di Maurizio Barale in
evidenza, e l’amarezza pensante di Cara
Democrazia, tratta sempre da L’arcangelo.
Pochi secondi e il palco si svuota: resta solo Ivano al centro, chitarra a
tracolla. Nel silenzio sgrana un Re e attacca Il disertore, eseguendola tutta d'un fiato: emozionante, come
sempre, da cantare a occhi socchiusi e la ferma obiezione nei pugni stretti, per
schiuderli solo nel dire «io armi non ne ho». Quando si riaprono gli occhi, il
sipario si chiude, giusto per dare un po’ di respiro a chi suona e a chi
ascolta.
Si riparte con La crisi, brano del 1979 ma ripescato
per evidente attinenza del titolo ai tempi che si vivono. Un salto di quasi
trent’anni con la passione dolorosa e non corrisposta riversata in L’amore trasparente, per poi tornare al
1996 con un improbabile amore a tempo (L’orologio
americano) e, ancora più indietro, al coinvolgimento quasi viscerale di Carte da decifrare. Sarà per rispettare
il titolo di quella canzone che chi sta sul palco, subito dopo, si diverte a
depistare il pubblico: prima Galardini infila un assolo magistrale, accennando
persino al tema morriconiano di Indagine
su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, poi Fossati al pianoforte
accenna il fraseggio iniziale di Homburg
dei Procol Harum (L’ora dell’amore per
i Camaleonti), ma subito dopo attacca il suo classico più irrinunciabile, La musica che gira intorno. Il pubblico
la canta da sempre e Ivano, che lo sa e forse la esegue più per gli spettatori
che per piacere suo, la maltratta un po’ vocalmente, cambiando la metrica dei
versi, ma l’energia del pezzo rimane intatta.
«In questi mesi ho imparato che
questo palco è diviso in due, la zona rock e quella colta» scherza, ma fino a
un certo punto, Fossati, che si diverte nel vedere la sezione ritmica (Gelsi,
Barale e il batterista Andrea Fontana,
che sostituisce Claudio Fossati) scatenarsi sull’hard rock e quella “colta”
(Galardini, Cantarelli e la Marchiori) che sembra uscita dal Rondò Veneziano,
con tanto di maschere tradizionali di medici da peste. Presentati
scherzosamente i musicisti, si fa di nuovo sul serio: c’è la delicatissima Tutto questo futuro di Decadancing, ma il banco salta subito
dopo con C’è tempo, di una bellezza
lancinante, difficile resistere alla lacrima, dagli occhi o dal cuore. Si torna
di nuovo al 1979 con … e di nuovo cambio
casa e soprattutto Di tanto amore,
brano passato anche per la sensibilità di Mia Martini ma decisamente ben
riuscito in questa circostanza. «Se c'è una cosa di cui sono felice, è di
essere riuscito a trasmettere un po' di speranza anche attraverso parole e
immagini semplici, e sono contento soprattutto per i ragazzi più giovani che
cantano». Subito dopo parte I treni a
vapore, regalata a Fiorella Mannoia giusto vent'anni fa e resa famosa da
lei, ma godibilissima nella versione “morbida” del suo autore e impreziosita
dalla fisarmonica: «il dolore passerà» e, con lui, anche la seconda parte del
concerto finisce.
Tutti naturalmente si aspettano i
bis, sanno che è questione di minuti e non si risparmiano di certo nel
richiamare Fossati e la sua band sul palco: nemmeno loro si fanno pregare e
poco dopo sono tutti al loro posto per un delicato omaggio a una città che «si
vede solo dal mare» e cui la musica d'autore è profondamente debitrice (Chi guarda Genova). Il tempo dello
sguardo intimo e sommesso della Pianta
del tè, poi si insinua a poco a poco il ritmo di Una notte in Italia, gioiellino donato anche a Ornella Vanoni e
che non perde un briciolo della sua eleganza.
Il sipario si chiude di nuovo e
dentro un po' di amarezza c'è, perché qualche capolavoro di ieri e dell'altro
ieri non si è fatto sentire. È quello che succede normalmente con gli
incantesimi, che finiscono troppo presto, ammesso che ci si creda: per fortuna,
però, questa volta c'è ancora tempo per un po' di magia, peraltro di ottima
qualità. In tali stati insieme per pianoforte e, dopo la consueta introduzione
da sognatore in volo, attacca La
costruzione di un amore. Una canzone intensa, che prende al cuore (anche
nella versione della Vanoni), ma anche, per lo stesso Fossati, «una canzone
disperata che si può scrivere giusto a vent'anni o a venticinque, come ho fatto
io, perché se la scrivi a quell’età puoi essere un giovane autore ombroso; se
la scrivi a quaranta o a cinquanta sei un disadattato e hai bisogno di cure».
Sarà pure disperato, ma resta un brano splendido, come splendido rimane l'amore
adulto di Il bacio sulla bocca (ma
poi chi l'ha detto che è solo per adulti? Va bene anche a 28 o a 26 anni…), con
la chitarra che sostituisce il piano nell'introduzione e la fisarmonica a dare
l'ultima, inevitabile stretta al cuore. È proprio l'ultima, perché stavolta
tutti si alzano in parte l'inconfondibile musica di sottofondo che equivale a
dire game over, non aspettarti
nient’altro.
Nell'uscire, ciascuno conta le
carte che mancano al proprio mazzo e che avrebbero reso la serata un vero
trionfo: chi scrive sapeva che non avrebbe potuto ascoltare La canzone popolare o La mia
banda suona il rock (decisamente troppo sfruttate, forse venute quasi a
nausea a Fossati), mentre ha sperato sino all'ultimo che dal pianoforte uscisse
anche il delicato ritratto dell’Uomo con
i capelli da ragazzo o che in scaletta sbucasse all'improvviso La bellezza stravagante oppure uno dei
brani firmati assieme a Fabrizio De Andrè. Eppure, già così, è andata
decisamente bene: difficile pretendere di più da un artista con 22 album all'attivo,
spalmati in quasi quarant'anni. Quello di ieri sera è stato un concerto davvero
generoso, tutto da ascoltare (e probabilmente da riascoltare, visto che i tanti
microfoni rivolti anche verso il pubblico fanno pensare a un prossimo disco dal
vivo): se è stato davvero un addio, di certo non ha avuto il sapore della
delusione.
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