PIER PAOLO Pasolini e Giorgio Gaber, due figure di valore nell’Italia
pensante dell’ultimo mezzo secolo, sono al centro dello spettacolo Eretici e corsari, che Neri Marcorè e Claudio Gioè stanno portando in scena, con il supporto musicale impagabile del GNU Quartet. Ho incontrato Neri a Modena e lui è stato così gentile da concedermi una lunga intervista: abbiamo parlato di Gaber, del pensiero e della satira, in modo serissimo, anche se lui ha scherzato e storpiato la mia voce emiliana fino a un attimo prima di accendere il registratore.
Neri, questo è il secondo spettacolo in cui ti accosti a Giorgio Gaber. Come sei arrivato a queste due esperienze?
«In
entrambi i casi sono responsabile solo in seconda battuta. E’ stato il
regista Giorgio Gallione a propormi la prima volta di affrontare il
mondo di Gaber attraverso una rilettura nostra dei testi di Giorgio e di
Sandro Luporini, con un’operazione non mimetica, ma rispettosa e anche
un po’ coraggiosa: volevamo verificarne l’attualità e restituirli nella
dimensione teatrale, cosa che era mancata dopo la morte di Gaber. Non
era una scelta strumentale, ma in assoluta buona fede: era frutto di un
amore per Gaber che ci siamo dichiarati anche quando lui era in vita. Il
secondo spettacolo, nato sempre su impulso di Gallione, nasce
dall’influenza che Pier Paolo Pasolini sembra aver avuto su alcuni testi
di Gaber e Luporini: colpiva trovare le stesse parole o la stessa
impostazione, anche se poi nello sviluppo Gaber era più ironico e
Pasolini più serio. Polli d’allevamento, consumismo, oggetti. Da qui
nasce l’idea di uno spettacolo in cui i due uomini-filosofi possano
parlare entrambi alla propria platea, lasciando al pubblico il compito
di individuare le sinapsi tra i due mondi: un aspetto un po’ inesplorato
di Gaber, oltre che più serio e più drammatico rispetto allo spettacolo
precedente.
Si incastrano bene la coppia Gaber-Luporini e Pasolini?
«Le
differenze ovviamente sono varie, ma più nell’espressività che nella
sostanza o nella generazione dei pensieri. Entrambi vedevano i mali
della società contemporanea, anche se cronologicamente Gaber può
sembrare la continuazione di Pasolini: hanno analogie e differenze, il
pubblico può scegliere quelle che vuole».
Le note dello
spettacolo parlano di «educazione al (libero) pensiero»: occorreva
rivolgersi a due personaggi scomparsi per ottenerla?
«Non
è necessario guardare indietro, ma è utile farlo. Si può fare a meno di
tutto, anche di Gaber e Pasolini, ma potendo disporre di due pensieri
così profondi, perché non avvalersene per rileggere questo presente che
somiglia tanto a quel passato? Penso che loro per primi sarebbero felici
di essere archiviati, laddove la società italiana si affrancasse da
certi vizi e difetti, ma a quanto pare sono ancora lì a parlarci di noi
dopo tanti anni».
Gaber intitolò un suo disco «E pensare che c’era il pensiero»: che fine ha fatto quel pensiero?
«La
sensazione è che sopravviva, ma non goda di ottima salute. Negli anni
’70 c’era una vivacità partita dal decennio precedente, ma martoriata
quando una parte di pensiero ha preso le pistole in mano e si è
trasformato in violenza. Si è arrivati poi all’edonismo degli anni ’80,
così leggiadri, nei quali il pensiero si era quasi spento del tutto, ma
forse vincerebbero ancora loro se li paragonassimo ai tempi di oggi. Il
pensiero può ravvivarsi dopo una crisi certamente economica, ma
soprattutto culturale e politica: credo che gli ultimi quindici anni
siano stati tremendi dal punto di vista del “progresso”, come lo
intendeva Pasolini, essi hanno generato una crisi a vari livelli che ora
cerchiamo di affrontare: se da una crisi partono nuove opportunità,
meno male che è tornato il pensiero».
Cosa senti più tuo, tra il teatro e la televisione?
«In
generale vanno bene entrambi, hanno vantaggi e svantaggi. Certo, è
difficile trovare svantaggi nel teatro, è tutto bello, è un mezzo
espressivo diretto e autentico, puoi sperimentare di più ma non fingere
sennò il pubblico ti scopre, mentre la televisione ha molti più filtri:
non si può naturalmente sottovalutare la popolarità che dà la
televisione e che uno poi può giocare su altri tavoli. Sul piano della
qualità la tv perde, però ci sono specifici programmi meritevoli, fatti
con cura e coscienza da autori, conduttori e maestranze, così come a
teatro ci sono operazioni discutibili. Tutto dipende dalle scelte che si
fanno: io ho la fortuna di poter scegliere quello che faccio, faccio
televisione solo quando sento il bisogno di tornarci per fare satira o
partecipare al programma di un amico, mentre in teatro scelgo i testi o
gli autori da portare in scena».
C’è spazio per la satira, regnante Monti?
«La
satira è un respiro di cui non si deve fare a meno, qualunque forma di
potere è attaccabile. Personalmente mi ero un po’ stufato di fare satira
sul governo precedente, anche se era molto facile farla: sembrava di
girare sempre intorno a un palo con una corda attaccata proponendo gli
stessi numeri, era una cosa ripetitiva perché loro erano ripetitivi.
Monti e i tecnocrati si possono attaccare: personalmente, però, mi pare
che in pochi mesi abbiano fatto molto, a prescindere dal giudizio che se
ne da, e faccio un po’ fatica a fare satira su chi lavora con coscienza
e si mostra poco in tv, quindi aspetterei la fine del mandato per
sapere se stiamo meglio o peggio».
Su cosa non riusciresti mai a fare ironia?
«Sulla
gente che soffre in generale, su malattie, sentimenti o debolezze in
generale, sarebbe sciacallaggio. Si deve assolutamente fare ironia
invece sull’arroganza, cosa che troppo spesso caratterizza la classe
politica».
Chiudiamo ancora con la musica: cosa ti lega alla figura di Fabrizio De André e a quale canzone di Gaber non rinunceresti?
«De
André mi piace tantissimo, ma forse devo ancora esplorare qualche
angolo: farei volentieri uno spettacolo su di lui, prima o poi, per
studiarlo meglio e capirlo a fondo. Musicalmente ha detto molto, ma è
passato alla storia per la sua capacità di descrivere un mondo in tre
parole, metteva la sua poesia a supporto della musica, il massimo per me
che apprezzo entrambe le cose. Quanto a Gaber, ci sarebbe l’imbarazzo
della scelta, ma se penso a una canzone scelgo Il dilemma, perché c’è un mondo dentro, è commovente e musicalmente è tra le più riuscite; tra i monologhi, invece, la parte finale di Qualcuno era comunista mi fa venire i brividi ogni volta che le do voce, anche in questo spettacolo».
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