lunedì 4 giugno 2012

«Io sono Paolo e amo il mio Paese»


C’era un sacco di gente per strada quel giorno, nel centro di Roma. La cosa si ripeteva ormai da anni, ogni secondo giorno di Giugno, almeno da quando, nel 2001, l’insistenza cortese ma ferma di un Presidente, che aveva visto lo sfacelo della Guerra e sentiva l’importanza di restituire alla ricorrenza della Repubblica la dignità che meritava, riportò la Festa nella capitale.
Non tutti, però, erano venuti in pace, prima di tutto con sé stessi. Per tante, convinte persone, quel giorno non c’era niente da festeggiare. O, per lo meno, niente per cui sfilare. Quei soldi, se proprio si dovevano spendere, era meglio farli arrivare in quelle terre che, tremando, avevano distrutto vite, case, capannoni, ricordi, posti di lavoro, oggetti del cuore, sforzi durati anni. Alcuni, compresi quelli che non avevano mai preso in mano un’arma e non comprendevano il senso di una parata militare nel giorno in cui si festeggiava una ricorrenza di pace, cercarono di spiegare che, questa volta, annullare tutto era forse possibile, ma perfettamente inutile. I palchi erano già stati montati e la gente si doveva pagare, le persone che dovevano percorrere via dei Fori imperiali erano quasi tutte a Roma, quindi si sarebbe risparmiato ben poco, rispetto alla spesa totale: per l’anno nuovo si poteva pensare di togliere la parata, ma per quest’anno ormai era fatta.
Qualcuno aveva preparato striscioni e megafoni, era pronto a gridare «Vergogna!» e anche «Ladri!» davanti ai primi corpi militari che sarebbero passati: forse qualcuno l’avrebbe fermato, ma sarebbe andata bene comunque, tutto pur di dire ciò che si pensa. Non è forse la Costituzione della Repubblica a dire che tutti possono manifestare liberamente il proprio pensiero? E allora che volete da noi?
Si misero ordinatamente dietro le transenne, un po’ lontani dalla tribuna presidenziale, per evitare che la polizia desse più noia del necessario. Quando videro arrivare da lontano l’inizio del corteo, alzarono lo striscione e, tempo qualche manciata di secondi, iniziarono a scandire: «Ver-go-gna! Ver-go-gna!» «Ma vergogna a chi??» La sentirono in pochi, quella risposta, pronunciata da una voce con accento romano, appena venata dalla raucedine, ma chi la avvertì rimase straniato: si fermò e invitò i vicini di protesta a tacere per un attimo.

Quelle parole erano venute da un signore sui sessantacinque anni, occhiali cerchiati di nero, barba sale e pepe, capelli lisci moderatamente ribelli. In testa un cappello chiaro a tesa larga, per proteggersi dal sole che picchiava, quasi come in quelle terre devastate in cui era abituato a smartellare; addosso, niente giacca, solo una camicia bianca chiusa da un papillon marrone, damascato, rigorosamente annodato a mano, portato anche se faceva caldo perché, davanti al Presidente, bisogna essere eleganti. Specie se hai fatto per quasi nove anni il quirinalista, al seguito di persone necessariamente vestite bene.
Lui stava davanti al corteo, proprio in mezzo ai gonfaloni di regioni e province che il terremoto aveva deciso di sconvolgere qualche giorno prima. Aveva fatto di tutto per esserci e per stare proprio lì, in testa. E tutto era andato bene, fino a quelle urla che lo avevano irritato in pochi secondi.
«Ma vergogna a chi??» aveva risposto, senza allontanarsi dal corteo. «A te e a quelli che sfilano nel giorno più sbagliato» ribatterono quelli che erano rimasti colpiti da quella risposta orgogliosa. «Non devo vergognarmi di niente, io so perché sono qui!» «Ah sì, e chi cazzo saresti? Sentiamo!» Fece finta di non sentire la parolaccia, signore com’era, e decise che poteva valere la pena di allontanarsi dalla testa della parata, per avvicinarsi a quel gruppo di contestatori.
«Chi sono io? – disse loro, sfoderando un sorriso che certamente non si aspettavano e, soprattutto, non capivano – Io sono Paolo e amo il mio Paese». «Questa è buona, tu ami il tuo Paese… che vuol dire?»
«Vuol dire che qui ci sono nato e cresciuto, fino alla fine; ho aperto gli occhi poco dopo che il Paese aveva scelto di voltare pagina e con una Carta aveva dato il benservito al Re; sono nato libero, mentre mio padre per un periodo ha conosciuto il buio di una cella senza avere fatto nulla e non si è mai dato pace, dunque io voglio restare libero. Anche per questo sono qui».
«Senti, tu parli tanto, ma non sono qui per farmi fregare da te – disse un tipo dal viso scolpito, tratti pronunciati e barba bruna, mentre continuava a reggere lo striscione –. Mezza Italia chiedeva di non fare questa manifestazione, perché era uno spreco di soldi e tu non solo ci vieni per partecipare, ma addirittura ti metti in testa al corteo… Ammettilo! Sei un militarista schifoso, ecco cosa sei».
La risata di Paolo, educata e sincera, li investì in pieno: «Amico mio, non ti conosco, ma nemmeno tu mi conosci. Non potevi esserci quando il mio figlio di mezzo rimaneva incantato davanti alle vetrine dei giocattoli, guardando a lungo i soldatini, e io entravo e prendevo d’assalto il commesso o il proprietario, chiedendogli dove mai avesse nascosto l’obiettore di coscienza di piombo e perché nessuno lo producesse. All’inizio mi prendevano per matto, ma alla fine concludevano che avevo ragione, che se esisteva uno doveva esserci pure l’altro, anche se forse mi davano ragione perché non ne potevano più e volevano essere lasciati in pace…».
Il corteo intanto continuava a sfilare, facendosi più silente passando sotto alla tribuna presidenziale, per non lasciare altro suono che il battito dei tamburi; Paolo ormai se n’era allontanato e nemmeno quel gruppo di contestatori lo seguiva più, quella storia dell’obiettore di coscienza di piombo aveva fatto centro, li aveva colpiti a sufficienza da far capire loro che quel signore che non avevano riconosciuto non stava raccontando balle.
«Però, scusi…» «Perché sei passato al “lei”?» «Mah, per rispetto…» «Ti ringrazio, ma preferisco il tu, non sono vecchio!» A quel giovane sfuggì un sorriso, ma lui fu attento a non farlo apparire sul viso. «Come vuoi, scusa. Comunque, fammi capire: tu non ami le armi, non ne prenderesti in mano una nemmeno per sbaglio, giusto? Spiegami allora cosa ci fai qui, in una parata piena di militari».
«Vedi, ti confesso una cosa: io a questa festa ci tengo, ma al 2 giugno, non alla parata. La festa per tanti anni aveva perso di smalto, la si celebrava di domenica, come una ricorrenza di second’ordine. Poi, per fortuna, l’ho vista rinascere, grazie a un grande Presidente, lo stesso che ha restituito dignità al Tricolore e al nostro Inno. L’ho raccontata per anni, con un microfono in mano che portava la mia voce ai televisori di tanti italiani: non amavo la sfilata di militari, io che sono non violento fino al midollo. Eppure, vivendola e raccontandola, ho capito quanto la festa parli del mio Paese, delle persone che l’hanno fatto, magari rimettendoci la vita o una parte di sé, nella Resistenza, ma anche di chi continua a fare questo Paese oggi, giocando la sua parte».
«Ho capito, sarà anche vero – ribatté il giovane che lo aveva insultato all’inizio, cosa di cui si era un po’ pentito – ma mi spieghi cosa ci fai in mezzo a tutti questi militari, che non c’entrano niente con te? Soprattutto, perché sei venuto proprio oggi, quando mezza Italia questa parata non la voleva per via del terremoto?» Anche lui si fece sorprendere dal sorriso di Paolo e si preparò mentalmente ad ascoltarlo.
«Hai visto dov’ero? Facci caso, non mi ero messo tra i militari e non mi ci avrebbero neppure fatto stare – spiegò con calma –. Ero proprio tra i rappresentanti di province e regioni colpite dal sisma di questi giorni, me lo sono scelto io quel posto. Poi là dietro ci sono anche i Vigili del fuoco, la Croce rossa e la Protezione civile, era stato proprio quel Presidente a volerla vedere passare con tutti gli altri corpi, perché meritava tutta la gratitudine e l’omaggio della gente, per quello che faceva nelle varie emergenze. È per loro che sono qui ed è anche, in qualche modo, per chiedere scusa…»
«No, ora non ti capisco… chiedere scusa per cosa?» riprese a parlare il giovane dalla faccia scolpita, che era rimasto in silenzio ad ascoltare, senza curarsi del brusio che c’era intorno e della parata che continuava a scorrere, incurante di loro. «Come ti chiami?» «Emanuele». Paolo rimase in silenzio per una manciata di secondi, non si aspettava di ritrovare proprio in lui una parte del nome di suo padre; si tenne per sé quella riflessione, quindi riprese: «Quanti anni hai, Emanuele?» «Io? 24, perché?»
«Vedi, tu non te lo puoi ricordare, quando c’erano i tiggì quasi sicuramente pensavi a giocare o mangiavi di gusto e lo capisco, ma quando tu avevi 9 anni, nel 1997, la terra aveva tremato anche in Umbria e nelle Marche e lo aveva fatto per vari giorni». «Beh, sì, ero piccolo, ma ne ho sentito parlare, so che crollarono monumenti e si rovinarono affreschi, anche ad Assisi…» «Bravo, proprio quel terremoto. Bene, io ero là per raccontare quei fatti e la storia di quella gente, davvero in ginocchio con quelle scosse che somigliavano tanto a quelle di questi giorni; con me c’erano tanti altri colleghi, specie della televisione. In quei giorni, difficilmente nei nostri servizi, compresi i miei, trovarono posto le testimonianze di chi elogiava i Vigili del fuoco o la Protezione civile per i soccorsi rapidi e accurati; non lo facevamo apposta, ma sembrava impossibile far stare insieme quelle frasi e le lamentele dei tanti disagi che, in quei giorni, sembravano insormontabili; una volta mandai in onda la dichiarazione di un terremotato che si lamentava perché nella sua casa-container entrava la pioggia, ma nel pezzo non aggiunsi che, il giorno stesso, i tecnici erano venuti a coprire in qualche modo il tetto…».
«Davvero? E perché l’hai fatto?» chiese Emanuele, sinceramente interessato. «Eh, mio caro – rispose Paolo, allargando le braccia – ci siamo fatti un po’ prendere la mano tutti. Tanti giornali ci avevano accusato di essere troppo morbidi con la Protezione civile, di non averne denunciato i ritardi, così cercammo di dimostrare che non era vero, ma cademmo nell’eccesso opposto; finimmo per mettere in luce anche piccole cose che non funzionavano, ma non riuscimmo a trasmettere a dovere il grande impegno che poi i volontari misero, dell’aiutare a ricostruire, anche solo la vita quotidiana».
«Che storia… allora è vero che i giornalisti esagerano sempre!» «Beh, sempre no – rispose prontamente Paolo, schiarendosi la voce – anche se può capitare e l’importante è rendersene conto e fare autocritica. Io ora so che quella volta andai oltre, anche se lo feci in assoluta buona fede: me ne sono reso conto già allora, poco dopo essere tornato a casa, e ho cercato di ricordarmi di quella lezione in tutto quello che ho fatto dopo».
«Allora è per questo che sei qui, perché ti dispiace per quello che era successo allora?» «Anche per quello, ma non solo». «E per cos’altro?» Paolo si aggiustò il farfallino, spostò leggermente il cappello e prese il respiro. «Perché volevo che si capisse che l’Italia è soprattutto questa. Quella che, piuttosto che fare polemiche, si rimbocca le maniche, che si tratti di ricostruire casa propria o di dare una mano a chi una casa non ce l’ha più. Te lo dice uno che, nel 1966, a 20 anni, da Roma era andato a Firenze, dopo che aveva piovuto per giorni e l’Arno aveva invaso la città e tutt’intorno».
Distolse per un attimo lo sguardo dai loro occhi per rivolgerlo al cielo, come a cercare nubi che in quel momento erano altrove. «C’erano le persone da aiutare e c’era una città da salvare, con tutto il suo tesoro di libri e opere d’arte. Ci chiamarono “angeli del fango”, ma eravamo semplicemente persone che volevano bene a Firenze e non potevano permettere che il suo patrimonio, un po’ anche nostro, venisse cancellato. Era un dovere, verso Dio e verso il nostro Paese» e, nel dirlo, strinse spontaneamente indice, medio e anulare della mano destra, portando il pollice a prendere la falangetta del mignolo: il gesto della Promessa, compiuto per la prima volta tanti anni prima e ripetuto in quel momento, anche se non indossava divisa e fazzolettone degli scout.
Nessuno di loro seppe dire quanto tempo durò quel dialogo: sta di fatto che, quando Paolo smise di parlare, la parata era finita e non li aveva nemmeno disturbati il rombo delle Frecce tricolori, visto che quell’anno furono lasciate a terra. Emanuele si accorse che molta gente se n’era già andata via, dunque era inutile tenere ancora lo striscione. Lo fece cadere con un rumore sordo, lasciando agli altri il compito di ripiegarlo e portarlo via: la mano appena liberata cercò quella di quell’uomo barbuto, incontrato per caso (credeva lui) e la strinse. «Grazie Paolo, davvero. Non ho capito bene chi tu sia e come mai ci siamo trovati proprio qui, ma questo incontro mi resterà dentro». «Nulla o quasi avviene per caso, credimi. Ero qui con un permesso speciale, ben speso direi».
Avrebbe voluto capire cosa significava quella frase così sibillina, conoscere meglio quell’uomo, ma il tempo del pranzo era arrivato da un pezzo e si doveva tornare a casa. Emanuele salutò di nuovo Paolo: «Beh, ancora grazie e spero di rivederti in giro». Paolo sgranò un sorriso: «Non sarà semplicissimo, il permesso è scaduto, ma un giorno ci troveremo di sicuro. E ricordati, Emanuele: la morte non avrà l’ultima parola». Non ebbe nemmeno il tempo di dire «Cioè? Che vuol dire?»: Paolo era già sparito, con un brano di sax nelle orecchie e tanta passione giallorossa dentro, recuperando la sua Vespa parcheggiata chissà dove per finire il suo giro, che di strada da fare ne aveva ancora tanta.

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