A molte, troppe cose, in Italia
facciamo l'abitudine in fretta. Anche quando, per il nostro bene, non dovremmo
abituarci mai. Non ci stupisce più sentire di incidenti sulla Salerno - Reggio
Calabria, di code tra Roncobilaccio e Barberino di Mugello, di persone cui in
estate saltano le cervella e che decidono di sterminare mezza famiglia con
un'arma spuntata da chissà dove; non ci sorprendiamo a trovare sempre nelle
pagine politiche un articolo intitolato «Il retroscena», a sapere che Vespa ha
scritto un altro libro o che hanno arrestato un uomo politico – il colore non
importa – perché è accusato di essersi intascato soldi che non avrebbe dovuto ricevere.
Non c'è da meravigliarsi, allora,
se ci stiamo ormai abituando anche alla «corsa dei prezzi dei carburanti» (i
giornalisti la chiamano proprio così, quasi tutti, con poche eccezioni). Sembra
ormai una clausola di stile, quasi una certezza nei titoli dei telegiornali
come nelle chiacchiere da bar: chi ha buona memoria si fa venire in mente
l'impennata dei prezzi di petrolio e derivati dopo la guerra del Kippur, a
partire dal 1973 (fu così che gli italiani finirono per abituarsi alla parola
austerity); i cultori della cultura nazionalpopolare hanno buon gioco a
ricordare Celentano e il pragmatico incipit
di Svalutation (scritta assieme a
Gino Santercole, Luciano Beretta e l’immortale “azzurro” Vito Pallavicini), per
cui nel ’76 «la benzina ogni giorno
costa sempre di più / e la lira cade e precipita giù».
Sembra quasi un fenomeno di
costume, se non fosse che pesa come un macigno sui nostri portafogli (sempre
più vuoti, e non solo perché è più difficile pagare in contanti) e ti fa
pensare due o anche tre volte, prima di andare in un posto tanto bello, ma non
esattamente dietro casa. Rischiamo di fare tanto l'abitudine a quel grafico di
prezzo puntato inesorabilmente verso l'alto e sempre sul punto di infrangere ogni record, da non ricordarci più perché da
noi il prelievo alla pompa, rispetto ad altri paesi, somiglia davvero a un
salasso: eppure basta digitare su Google la stringa «composizione del prezzo
della benzina» per recuperare tutte le puntate precedenti
Ecco allora che la solerzia della
Rete ci ricorda come sul prezzo finale dei carburanti pesino, tra l'altro, le accise
introdotte in occasione della guerra in Abissinia nel 1935, della crisi di Suez
nel 1956, di disastri acquatici del Vajont e di Firenze, dei terremoti in Val
Belice, in Friuli e in Irpinia, fino agli aumenti più recenti, introdotti con
il decreto "salva Italia". Questi ultimi probabilmente sono stati i
più dolorosi, perché incidevano su un prezzo dei carburanti già troppo alto, ma
a pensarci bene sono stati tra i più onesti, perché lo scopo del ritocco era
stato dichiarato fin dall'inizio: ci servono dei soldi, da qualche parte dobbiamo
prenderli e macchine, camion e autobus dovranno pur circolare. Tutti gli
aumenti precedenti, invece, erano stati giustificati come misure necessarie per
far fronte a emergenze reali di vario tipo, per loro natura temporanee: il
tempo è trascorso, molte emergenze sono terminate (anche se, per dirne una, in
Irpinia le cose non sono mai tornate a posto per davvero), ma le accise sono
ancora lì e contribuiscono enormemente a tenere alti i prezzi.
Verrebbe la
tentazione di chiedersi se è stato più ipocrita chi ha governato allora (sapendo
benissimo che quelle imposte non sarebbero mai state tolte) o se è più
colpevole chi governa oggi (preferendo intervenire sulla rete di distribuzione
piuttosto che eliminare qualcuna delle accise più risalenti, cui non intende
rinunciare): già, verrebbe la tentazione, ma intanto il serbatoio si è vuotato e
occorre riempirlo di nuovo. Tanto per cambiare.
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