lunedì 13 febbraio 2012

Neri Marcorè: il Signor G, Pasolini e il respiro della satira

PIER PAOLO Pasolini e Giorgio Gaber, due figure di valore nell’Italia pensante dell’ultimo mezzo secolo, sono al centro dello spettacolo Eretici e corsari, che Neri Marcorè e Claudio Gioè stanno portando in scena, con il supporto musicale impagabile del GNU Quartet. Ho incontrato Neri a Modena e lui è stato così gentile da concedermi una lunga intervista: abbiamo parlato di Gaber, del pensiero e della satira, in modo serissimo, anche se lui ha scherzato e storpiato la mia voce emiliana fino a un attimo prima di accendere il registratore.


Neri, questo è il secondo spettacolo in cui ti accosti a Giorgio Gaber. Come sei arrivato a queste due esperienze?
«In entrambi i casi sono responsabile solo in seconda battuta. E’ stato il regista Giorgio Gallione a propormi la prima volta di affrontare il mondo di Gaber attraverso una rilettura nostra dei testi di Giorgio e di Sandro Luporini, con un’operazione non mimetica, ma rispettosa e anche un po’ coraggiosa: volevamo verificarne l’attualità e restituirli nella dimensione teatrale, cosa che era mancata dopo la morte di Gaber. Non era una scelta strumentale, ma in assoluta buona fede: era frutto di un amore per Gaber che ci siamo dichiarati anche quando lui era in vita. Il secondo spettacolo, nato sempre su impulso di Gallione, nasce dall’influenza che Pier Paolo Pasolini sembra aver avuto su alcuni testi di Gaber e Luporini: colpiva trovare le stesse parole o la stessa impostazione, anche se poi nello sviluppo Gaber era più ironico e Pasolini più serio. Polli d’allevamento, consumismo, oggetti. Da qui nasce l’idea di uno spettacolo in cui i due uomini-filosofi possano parlare entrambi alla propria platea, lasciando al pubblico il compito di individuare le sinapsi tra i due mondi: un aspetto un po’ inesplorato di Gaber, oltre che più serio e più drammatico rispetto allo spettacolo precedente.
Si incastrano bene la coppia Gaber-Luporini e Pasolini?
«Le differenze ovviamente sono varie, ma più nell’espressività che nella sostanza o nella generazione dei pensieri. Entrambi vedevano i mali della società contemporanea, anche se cronologicamente Gaber può sembrare la continuazione di Pasolini: hanno analogie e differenze, il pubblico può scegliere quelle che vuole».
Le note dello spettacolo parlano di «educazione al (libero) pensiero»: occorreva rivolgersi a due personaggi scomparsi per ottenerla?
«Non è necessario guardare indietro, ma è utile farlo. Si può fare a meno di tutto, anche di Gaber e Pasolini, ma potendo disporre di due pensieri così profondi, perché non avvalersene per rileggere questo presente che somiglia tanto a quel passato? Penso che loro per primi sarebbero felici di essere archiviati, laddove la società italiana si affrancasse da certi vizi e difetti, ma a quanto pare sono ancora lì a parlarci di noi dopo tanti anni».
Gaber intitolò un suo disco «E pensare che c’era il pensiero»: che fine ha fatto quel pensiero?
«La sensazione è che sopravviva, ma non goda di ottima salute. Negli anni ’70 c’era una vivacità partita dal decennio precedente, ma martoriata quando una parte di pensiero ha preso le pistole in mano e si è trasformato in violenza. Si è arrivati poi all’edonismo degli anni ’80, così leggiadri, nei quali il pensiero si era quasi spento del tutto, ma forse vincerebbero ancora loro se li paragonassimo ai tempi di oggi. Il pensiero può ravvivarsi dopo una crisi certamente economica, ma soprattutto culturale e politica: credo che gli ultimi quindici anni siano stati tremendi dal punto di vista del “progresso”, come lo intendeva Pasolini, essi hanno generato una crisi a vari livelli che ora cerchiamo di affrontare: se da una crisi partono nuove opportunità, meno male che è tornato il pensiero».
Cosa senti più tuo, tra il teatro e la televisione?
«In generale vanno bene entrambi, hanno vantaggi e svantaggi. Certo, è difficile trovare svantaggi nel teatro, è tutto bello, è un mezzo espressivo diretto e autentico, puoi sperimentare di più ma non fingere sennò il pubblico ti scopre, mentre la televisione ha molti più filtri: non si può naturalmente sottovalutare la popolarità che dà la televisione e che uno poi può giocare su altri tavoli. Sul piano della qualità la tv perde, però ci sono specifici programmi meritevoli, fatti con cura e coscienza da autori, conduttori e maestranze, così come a teatro ci sono operazioni discutibili. Tutto dipende dalle scelte che si fanno: io ho la fortuna di poter scegliere quello che faccio, faccio televisione solo quando sento il bisogno di tornarci per fare satira o partecipare al programma di un amico, mentre in teatro scelgo i testi o gli autori da portare in scena».
C’è spazio per la satira, regnante Monti?
«La satira è un respiro di cui non si deve fare a meno, qualunque forma di potere è attaccabile. Personalmente mi ero un po’ stufato di fare satira sul governo precedente, anche se era molto facile farla: sembrava di girare sempre intorno a un palo con una corda attaccata proponendo gli stessi numeri, era una cosa ripetitiva perché loro erano ripetitivi. Monti e i tecnocrati si possono attaccare: personalmente, però, mi pare che in pochi mesi abbiano fatto molto, a prescindere dal giudizio che se ne da, e faccio un po’ fatica a fare satira su chi lavora con coscienza e si mostra poco in tv, quindi aspetterei la fine del mandato per sapere se stiamo meglio o peggio».
Su cosa non riusciresti mai a fare ironia?
«Sulla gente che soffre in generale, su malattie, sentimenti o debolezze in generale, sarebbe sciacallaggio. Si deve assolutamente fare ironia invece sull’arroganza, cosa che troppo spesso caratterizza la classe politica».
Chiudiamo ancora con la musica: cosa ti lega alla figura di Fabrizio De André e a quale canzone di Gaber non rinunceresti?
«De André mi piace tantissimo, ma forse devo ancora esplorare qualche angolo: farei volentieri uno spettacolo su di lui, prima o poi, per studiarlo meglio e capirlo a fondo. Musicalmente ha detto molto, ma è passato alla storia per la sua capacità di descrivere un mondo in tre parole, metteva la sua poesia a supporto della musica, il massimo per me che apprezzo entrambe le cose. Quanto a Gaber, ci sarebbe l’imbarazzo della scelta, ma se penso a una canzone scelgo Il dilemma, perché c’è un mondo dentro, è commovente e musicalmente è tra le più riuscite; tra i monologhi, invece, la parte finale di Qualcuno era comunista mi fa venire i brividi ogni volta che le do voce, anche in questo spettacolo».

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