Gianmarco Tognazzi |
Si può nascere e crescere in un
luogo con la propria famiglia, per poi scoprire che, anche a centinaia di
chilometri di distanza, ci si sente a casa perché un pezzo delle proprie radici
affonda lì. È il caso di Gianmarco
Tognazzi, andato in scena martedì al teatro Ariston di Mantova con Un nemico del popolo, dramma di fine
‘800 di Henrik Ibsen.
L'ho intervistato prima dello spettacolo e ha parlato volentieri dello spettacolo, del suo lavoro (soprattutto di Il bene e il male, un bell'episodio della sua carriera anche se non troppo fortunato quanto a programmazione), ma non
nasconde il proprio attaccamento alla Bassa mantovana, tanto familiare al padre,
in veste di uomo, attore e gastronomo.
«In effetti lo si è scelto per
quello, oltre che in continuità con la scelta degli anni scorsi con Dürrenmatt.
Quando si ha la fortuna e, volendo, la capacità di trovare grandissimi autori
che hanno scritto cose meravigliose che risultano forse più attuali oggi
rispetto a quando furono scritte, non si può non rendere omaggio alla grandezza
di chi ha saputo vedere con largo anticipo. Si riesce a essere contemporanei
mettendo in scena i loro testi, anche senza affidarsi al singolo fatto di
cronaca o di costume: alcuni adattamenti sono necessari, oggi per esempio spettacoli
da cinque atti sarebbero improponibili, ma restano inalterate tutte le
caratteristiche originali e fondamentali.»
In qualche modo questo spettacolo ti somiglia, comprende tutti i tuoi
volti da attore; lo stesso Ibsen era incerto se definirlo commedia o dramma.
«La scelta sta anche nel trovare
cose che pensi siano più aderenti a te, o facendo una critica al personaggio con
l’interpretazione, come è accaduto con il superficiale Alfredo Traps in Die Panne di Dürrenmatt, o provando
soddisfazione nel rappresentare un personaggio molto positivo, con virtù molto
desiderabili ma abbastanza rare in un Paese e in un tempo come il nostro, con
grossi ostacoli sul loro cammino che richiedono il coraggio di lottare contro i
mulini a vento: è il caso del protagonista del testo di Ibsen, che si muove tra
il drammatico e il grottesco. Non parlerei esattamente di commedia, anche se
poi quando si entra nel conflitto tra interessi pubblici e privati, nel nostro
paese c’è molto di comico, negli ultimi 25-30 anni abbiamo visto talmente tante
cose paradossali da divenire nella realtà grottesche, se non addirittura
ridicole o comiche. La dichiarazione di Ibsen denota la volontà che, assieme a
Edoardo Erba e al regista Armando Pugliese, abbiamo avuto di tenere insieme i
due generi, senza limitarci alla sola denuncia sociale.»
Gianmarco e Ugo Tognazzi - sito www.ugotognazzi.com |
Lasciamo per un attimo l’aspetto artistico. Tuo padre Ugo teneva molto
alle “terre basse” del Po: qual è invece il tuo rapporto con la Bassa?
«Ogni volta che sono in quelle
zone, ho un senso di appartenenza pur non essendo mai vissuto lì e senza
esserci cresciuto: evidentemente è qualcosa che arriva da suggestioni genetiche,
non mi viene altra risposta… mi piace la nebbia, che devo fare, sono malato! (ride) Mi è capitato, per dire, anche in
aree non vicinissime a Cremona o a Mantova ma considerabili comunque zone “di
Bassa”, trovando un clima sempre familiare: mi è successo ad esempio a Busseto,
nel parmense, quando girai Cielo e terra con
Anita Caprioli e passai due mesi lì, mi sono trovato in un clima a me
familiare. Io Cremona l’ho frequentata poco, ho avuto modo di recitarci due
volte sulla lunga distanza, anche se ho rapporti molto forti con quella città
perché parte della nostra famiglia è ancora radicata lì; in tutta la zona di
Fiume, poi, il pubblico è ancora molto legato alla figura di mio padre al punto
che lo considera come originario della Bassa, i mantovani per dire sanno che è
nato a Cremona, sanno che le tre “T” di Cremona (torrone, Torrazzo e “tétàs”, ndb) con Tognazzi sono diventate quattro, ma lo sentono “loro”. Non
a caso, il personaggio che mi ricorda di più Ugo anche per i suoi aspetti
intimi è Primo Spaggiari della Tragedia di
un uomo ridicolo, che era ambientato proprio nella Bassa e, anche qui non a
caso, gli ha fatto vincere la Palma d’oro.»
La Tognazza |
Dicono i bene informati che lui facesse regolarmente tappa in un
ristorante di Pomponesco…
«Beh, mio padre di ristoranti ne
girava 4 o 5 al giorno, da buon malato di gastronomia. Anche per questo, uno
dei traguardi più interessanti che sono riuscito a raggiungere è arrivato quest’anno,
quando ho realizzato un suo sogno, cioè ripristinare con rigore i due vini che
facevamo a Velletri, dove siamo cresciuti e lui teneva assolutamente ad avere i
prodotti della sua terra, coltivati da lui: far arrivare sulle tavole o nei
ristoranti, dopo tanti anni, il vino di Ugo con l’etichetta disegnata da lui e
la sua cura per la genuinità dei prodotti, e vedere che l’iniziativa ha un
successo tra la gente del tutto inatteso, è una grande soddisfazione, perché fa
vivere Ugo non solo nel cinema, ma anche attraverso la sua più grande passione.»
Il tuo rapporto con la cucina, se posso chiedere?
«Mah, non l’ho fatto diventare il
mio hobby primario perché già condividevo con mio padre il mestiere e il tifo
per il Milan: avessi avuto anche lo stesso hobby, avrei rischiato di apparire
una sorta di “complessato del padre”, mentre non lo sono affatto, faccio le
cose in totale autonomia. Dunque sulla cucina mi sono un po’ frenato, perché
nessuno mi seccasse su questo punto; ora invece, visti i risultati della
Tognazza e dei due vini, sul versante “gastronomico” di Ugo, vorrei andare
avanti perché la gente ha testimoniato anche in questo caso, a prescindere, una
fiducia, sulla base probabilmente di quello che ancora suscita il ricordo di
mio padre, dopo 22 anni dalla sua scomparsa, ritenendolo credibile,
attendibile. Mi ha quasi sconcertato questa fiducia a priori in quest’iniziativa, al di là di ogni più rosea
previsione: vuol dire che nei confronti di Ugo c’è ancora da parte della gente
una fiducia che lui in qualche modo creava nel gestire la vita, il lavoro, il
suo anticonformismo»
L’avrà appreso nella Bassa, questo atteggiamento come l’amore per la
gastronomia?
«Certamente il rapporto di Ugo
con la terra, la vita, la condivisione e la convivialità faceva parte di lui:
era sicuramente più terragno che spirituale e certamente la Bassa è una terra
che ama i piaceri della vita».
Tornando a te, tu alterni teatro, cinema e televisione: cosa ti hanno
dato questi tre aspetti del lavoro?
«Per me si tratta di un lavoro
unico, quello che faccio al cinema lo faccio anche in teatro e in tv, ma c’è
una differenza sostanziale nel valore che ha il teatro, cioè la possibilità di
un rapporto diretto col pubblico, un elemento del tutto irrinunciabile. Anche
Ugo, del resto, organizzava le sue cene perché, facendo molto cinema e molta tv
ma essendo lontano dai teatri, voleva comunque esibirsi e gli ospiti erano il
suo pubblico, che lo poteva giudicare: per l’attore, la testimonianza diretta
dell’apprezzamento o della critica della critica è qualcosa di necessario, io l’ho
fatto per vent’anni con costanza, magari rinunciando a opportunità dal cinema o
dalla televisione e stando lontano dalla famiglia e dagli amici, perché un tour teatrale ti vincola in anticipo e
ti fa stare in giro per tre, quattro mesi. La fiducia che negli anni si
instaura tra un teatro e un attore o una “ditta”, come faccio io con Bruno
Armando da ormai dodici anni per la sua duttilità e il rapporto che c’è fuori
dai palchi, così come la fiducia che si crea con le produzioni o i registi, crea
poi la libertà dell’artista di decidere cosa fare e come, ma il percorso di
semina è molto lungo. Non è così sul cinema e la tv, dove le variabili sono
molte di più, a partire dall’andare a genio a un regista o a una produzione: non
sono regista di me stesso, in un periodo in cui tutti fanno gli attori e i
registi, preferisco volare più basso e fare solo l’attore. Quello che ho in
curriculum, a parte qualche defezione dovuta agli impegni teatrali, è tutto
quello che mi è stato proposto: non ho rimpianti.»
Chi ti parla ha apprezzato moltissimo Il bene e il male, una tra le più intriganti fiction Rai degli ultimi anni: come ricordi quell’esperienza?
«Innanzitutto è stato bellissimo,
dopo molti anni, tornare a fare il protagonista di una fiction lunga, sono entrato anche in Antimafia negli ultimi anni, ma da co-protagonista. Ho creduto
molto in quella serie, mettendoci tutto me stesso per mesi perché sentivo
davvero l’intenzione di fare qualcosa di diverso. Mi pare che ci siamo riusciti,
nonostante varie difficoltà, compresa una ingiustificata e scellerata scelta di
programmazione: nel momento in cui Raiuno puntava su un attore che da quindici
anni non era protagonista e voleva in qualche modo ringiovanire la sua offerta
con un linguaggio poco lineare e molto psicologico, metterla contro al Grande Fratello nella sua edizione di
rilancio e contro alla seconda edizione di X
Factor che andava molto bene su Raidue è stata una scelta che non riesco a
spiegarmi. Era prevista una nuova serie, che poi non è stata realizzata perché
la Rai aveva ha ritenuto l’audience troppo
bassa, ma Il bene e il male si è
tenuta stretta i suoi 5 milioni di telespettatori – che oggi sono considerati
un ottimo ascolto – e tantissime persone affezionate alla tv mi hanno detto di
avermi apprezzato lì, anche se la serie è stata sfruttata pochissimo, un po’
com’era accaduto con Teste rasate, un
film programmato poco al cinema e mai passato in tv, ma che deve aver colpito
molto chi l’ha incrociato, magari in cassetta.»
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